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Nel cuore dell’identità culturale giapponese esiste un palcoscenico che resiste al tempo, dove la parola si fa gesto e il gesto diventa rito. È qui che convivono due forme teatrali opposte e complementari, due anime che raccontano, da secoli, la storia di un Paese sospeso tra l’eterno e l’effimero: il Noh e il Kabuki. Nati in epoche differenti, rispondono a bisogni diversi e si rivolgono a pubblici opposti, ma condividono la stessa tensione estetica e lo stesso valore simbolico: sono specchi del Giappone e della sua memoria, viva e stratificata.

Il Noh affonda le radici nel XIV secolo, nel cuore del Giappone medievale, tra i templi zen e le corti dei daimyō. È il tempo di Kan’ami e di suo figlio Zeami, figure centrali nella nascita di questa forma scenica tanto essenziale quanto profonda. Zeami non si limita a recitare o a scrivere: riflette, struttura, elabora. Nei suoi trattati, il teatro si trasforma in una disciplina dell’anima. Il principio di yūgen, quella bellezza allusiva e misteriosa che non si mostra ma si intuisce, guida ogni aspetto della messinscena. Gli attori del Noh non interpretano, incarnano. I personaggi che appaiono sul palco – spesso spiriti, guerrieri caduti, donne abbandonate – non parlano solo ai vivi, ma si muovono tra i mondi, sospesi in uno spazio rituale. Le maschere fissano il volto nel tempo, il coro accompagna la narrazione con cadenze ieratiche, la musica scandisce non l’azione, ma lo spirito.

E poi arriva il Kabuki, secoli dopo, in un altro mondo. È il 1603 e una danzatrice di nome Okuni sconvolge Kyoto con un teatro nuovo, popolare, provocante. Il suo stile attira folle e critiche: è troppo audace, troppo terreno, troppo sovversivo. Le autorità la bandiscono, ma la scintilla è accesa. Il kabuki evolve, si fa maschile, diventa spettacolo totale. Colori, costumi, acrobazie, musica, trucchi scenici: tutto concorre a creare una forma di teatro che parla direttamente al cuore del pubblico urbano dell’epoca Edo, che vuole emozione, pathos, grandezza. Il kabuki è vita che esplode in scena, con tutti i suoi eccessi, i suoi drammi, i suoi eroismi.

Dentro questa fioritura spettacolare emergono opere che diventano pietre miliari. Una di queste è Sonezaki Shinjū di Chikamatsu Monzaemon, scritta nel 1703 e considerata la prima tragedia d’amore moderna del kabuki. Racconta la vicenda struggente di Tokubei e Ohatsu, due giovani amanti destinati a morire insieme per sfuggire all’ingiustizia sociale e al disonore. Ispirata a un fatto realmente accaduto, l’opera conquistò immediatamente il pubblico e inaugurò un nuovo genere teatrale: quello dei suicidi d’amore, o shinjūmono, in cui l’eroismo non è più nella spada, ma nella fedeltà assoluta al sentimento. La scena più celebre, quella in cui Ohatsu comunica il proprio consenso al suicidio a Tokubei attraverso un delicato gioco di gesti nascosti sotto le pieghe del kimono, resta uno dei momenti più toccanti dell’intero repertorio kabuki.

Diverso per tono ma altrettanto iconico è Yoshitsune Senbon Zakura – “Yoshitsune e i mille ciliegi” – una delle opere più grandiose e amate del repertorio. Andata in scena per la prima volta nel 1747, unisce intrighi storici, elementi sovrannaturali e scene spettacolari, raccontando le vicende leggendarie del generale Minamoto no Yoshitsune dopo la guerra Genpei. Accusato ingiustamente dal fratello Yoritomo, Yoshitsune si rifugia con i suoi fedeli, tra cui il celebre Benkei, in una fuga avventurosa che attraversa il Giappone. La narrazione si intreccia a vicende di spiriti volpi, identità scambiate e apparizioni misteriose. L’opera è un trionfo del kabuki spettacolare: costumi sontuosi, cambi di scena rapidi, momenti di danza e duelli acrobatici. Il pubblico, ancora oggi, attende con trepidazione le scene simbolo, come l’apparizione della volpe Tadanobu, che danza con struggente grazia e rivelazioni emotive.

La forza del kabuki, rispetto alla compostezza del Noh, sta proprio nella sua capacità di mescolare alto e basso, sacro e profano, tragedia e comicità. Ma al di là della forma, entrambi i teatri hanno saputo attraversare i secoli come custodi di un’estetica e di una sensibilità che ancora oggi colpiscono. Ogni rappresentazione è memoria in movimento: lo stesso testo, la stessa danza, la stessa maschera vengono ripetuti con fedeltà assoluta, ma con l’anima dell’interprete a rendere ogni volta nuova l’esperienza.

Oggi, entrare in un teatro Noh a Kyoto o assistere a una matinée al Kabuki-za di Tokyo è come varcare una soglia fuori dal tempo. Non si assiste a uno spettacolo: si prende parte a un rito. In un mondo sempre più veloce, il Giappone del Noh e del Kabuki ci insegna la potenza della lentezza e l’importanza del gesto, la bellezza della ripetizione e il rispetto per ciò che non cambia. E mentre i ciliegi fioriscono, sul palco si rinnova un’arte che ha saputo trasformare la storia in emozione, e l’emozione in eternità.

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