Nel nord dell’Australia, dove il rosso della terra incontra il blu profondo del mare di Timor, c’è un vento che porta con sé parole lontane. Non sono parole turistiche, né moderni slogan pubblicitari. Sono suoni arcaici, custoditi dagli anziani, cantati nei rituali, incisi nei legni e nei corpi. Sono tracce di una storia linguistica che ancora oggi affascina e divide studiosi e narratori: quella delle cosiddette lingue austro-aborigene.
Non è un nome ufficiale, né un capitolo stabilito nei manuali accademici. È piuttosto un’ipotesi, un sussurro emerso tra archivi coloniali, racconti orali e rotte dimenticate. Si tratta dell’idea che, in un tempo remoto, le popolazioni aborigene dell’Australia – in particolare quelle del nord tropicale – abbiano avuto contatti, e forse legami più profondi, con le grandi culture austronesiane provenienti dall’attuale Indonesia, dalla Melanesia e persino dall’Asia continentale.
Le mappe linguistiche ci raccontano che l’Australia era un continente già pienamente abitato quando i faraoni costruivano le piramidi. Prima che l’Europa pensasse di esistere, qui si parlavano centinaia di lingue distinte. Eppure, qualcosa di più si muoveva lungo le coste settentrionali: pescatori Makassar arrivavano ogni anno dalle isole indonesiane con le loro canoe cariche di trepang (cetrioli di mare), strumenti di ferro, tamburi e parole nuove. Dormivano sulla sabbia rossa, condividevano cibo e riti, e in alcuni casi si unirono ai clan locali. Di queste presenze restano i canti, i toponimi, e le testimonianze raccolte nei diari degli esploratori dell’Ottocento, oggi gelosamente conservati in archivi antropologici.
Cosa hanno lasciato queste incursioni gentili? Quali parole sono rimaste? I linguisti hanno cercato, nei secoli, somiglianze tra le lingue australiane e quelle austronesiane – vocaboli per il mare, per la navigazione, per gli strumenti rituali. In alcuni casi, le corrispondenze sembrano lampanti, quasi poetiche. In altri, sono solo eco vaghi, somiglianze accidentali, sogni sonori.
Ma la bellezza di questa ipotesi non sta tanto nella dimostrazione scientifica, quanto nella storia che ci suggerisce. È l’idea che l’Australia non sia stata sempre e solo isola, ma anche crocevia. Che il silenzio del deserto possa contenere racconti di oceani e commerci, di lingue migranti e affinità invisibili. È un’immagine che affascina antropologi e creativi, stilisti e artisti che da anni si ispirano a questa fusione culturale per interpretare l’estetica indigena non come folclore, ma come forma vivente di connessione globale.
Le stampe geometriche che oggi vediamo su passerelle e tessuti artigianali, i colori ocra e blu notte, le conchiglie usate come gioielli: tutto può diventare, nel contesto giusto, eco di questo incontro dimenticato tra Asia e Australia. Le lingue – anche quando non si parlano più – continuano a vivere nei simboli, nei canti, nei gesti tramandati. E nel modo in cui raccontiamo il mondo con ciò che indossiamo.
Così, tra il ricamo di una tunica, il disegno di una copertina e l’armonia di una parola antica, forse si cela ancora il mistero delle lingue austro-aborigene. Non un mistero da risolvere, ma da ascoltare. Come un vento che arriva dal mare, portando con sé storie che non vogliono prove: vogliono essere sognate.
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