Archi d’Oriente: quando la musica racconta ciò che la storia dimentica
Nel grande affresco della musica tradizionale asiatica, ci sono strumenti che vibrano ancora oggi con forza nelle coscienze collettive e altri che, nonostante la loro raffinatezza, sono scomparsi quasi in silenzio. Tra Corea, Cina e Giappone esistono tre strumenti ad arco verticali dall’aspetto simile ma dai destini molto diversi: il coreano haegeum, il cinese erhu e il giapponese kokyū. A guardarli, sembrano tre fratelli di sangue: due corde, una piccola cassa armonica, un archetto fisso tra le corde. Eppure, la loro presenza nelle culture d’origine non potrebbe essere più diversa.
In Corea, il haegeum continua a far parte della vita musicale del paese. È uno strumento sottile ma espressivo, capace di produrre suoni che sembrano venire da epoche lontane. La sua voce tremolante e vibrante è ancora oggi presente nella musica rituale, nei concerti di gugak e persino in alcune sperimentazioni contemporanee. Il haegeum è stato preservato, insegnato, suonato. È diventato parte integrante della narrazione identitaria coreana, simbolo di continuità tra il passato e il presente.
In Cina, il erhu è forse lo strumento tradizionale più conosciuto e riconoscibile. Con un timbro profondo, a tratti malinconico, è usato in orchestre, colonne sonore, brani solisti e fusion moderni. Originario delle popolazioni nomadi del nord, ha attraversato i secoli guadagnando un ruolo centrale nella musica cinese classica e popolare. L’erhu, oggi, è un suono che racconta storie di villaggi, guerre, amori e leggende. Non è un relitto del passato: è una voce che ancora parla forte.
E poi c’è il Giappone, dove un tempo si suonava il kokyū, strumento oggi quasi del tutto dimenticato. Introdotto nel periodo Edo, il kokyū aveva un suono sottile, intimo, ideale per piccoli ensemble e brani raffinati. Eppure, non è mai riuscito a conquistarsi uno spazio stabile nei grandi generi teatrali giapponesi come il Nō o il Kabuki. In un contesto musicale dominato dallo shamisen, dallo shakuhachi e dal ritmo marcato dei tamburi, il kokyū è rimasto nell’ombra. A differenza dei suoi “cugini” coreani e cinesi, non ha avuto una rinascita, né una vera scuola che ne tramandasse l’uso. Oggi, pochissimi giapponesi ne conoscono persino l’esistenza, e raramente lo si incontra nei concerti tradizionali o nei repertori educativi.
È un paradosso culturale affascinante. Tre strumenti così simili per costruzione, così diversi per destino. Il kokyū, sepolto nella memoria, testimonia come il valore di uno strumento non risieda solo nella sua struttura o nel suo suono, ma nel posto che la cultura decide di assegnargli. Il Giappone, in questo caso, sembra aver fatto una scelta precisa, favorendo strumenti più forti scenicamente, come lo shamisen, relegando il kokyū a ruoli marginali, fino a farlo sparire quasi del tutto dalla scena.
Eppure, oggi, qualcosa si muove. Con il crescente interesse per la musica etnica, alcuni compositori e ricercatori stanno riscoprendo il kokyū, cercando di restituirgli dignità e suono. In questo movimento di recupero e riflessione, emerge una domanda fondamentale: cosa rende uno strumento degno di essere tramandato? E quanto di quella scelta dipende da esigenze artistiche e quanto da logiche sociali, teatrali, persino politiche?
Mentre il haegeum continua a risuonare nei teatri coreani e l’erhu emoziona il pubblico di Shanghai o Pechino, il kokyū attende il momento di essere ascoltato di nuovo. Forse è il momento di riportarlo sul palco, non solo come oggetto di curiosità, ma come voce dimenticata di una storia ancora tutta da raccontare.
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