C’è qualcosa di profondamente umano nei film dello Studio Ghibli, qualcosa che va oltre l’animazione, oltre il disegno raffinato e la regia magistrale. È la capacità rara di raccontare storie che, pur parlando di mondi fantastici, toccano corde intime e autentiche. Fondata nel 1985 da Hayao Miyazaki, Isao Takahata e il produttore Toshio Suzuki, la casa di produzione giapponese è diventata, nel tempo, una vera e propria istituzione culturale, capace di dare voce a una visione poetica e critica della società contemporanea.
L’avventura inizia poco prima, con Nausicaä della Valle del vento, film uscito nel 1984 e tratto dal manga dello stesso Miyazaki. L’accoglienza del pubblico e della critica fu tale da spingere i fondatori a creare uno studio che desse completa libertà espressiva ai suoi autori. Il nome “Ghibli”, preso in prestito da un vento caldo del Sahara, non è un vezzo esotico, ma una dichiarazione d’intenti: portare aria nuova nell’industria dell’animazione. E così è stato.
Ogni pellicola dello Studio Ghibli è, a suo modo, un pezzo di storia. Non solo della storia dello studio o dell’animazione giapponese, ma della cultura visiva e emotiva di chi quei film li ha visti e amati. Dai paesaggi rurali immersi nel verde al cielo affollato di creature volanti, dagli spiriti misteriosi alle città sospese tra modernità e mitologia, tutto nei film Ghibli è costruito con una cura quasi artigianale. Ma soprattutto, ognuno di questi film sembra voler conservare il tempo, come se ogni scena fosse una teca in cui si protegge la memoria di qualcosa che rischia di scomparire.
Emblematico è il caso de Il mio vicino Totoro, del 1988. Un film apparentemente semplice, con due sorelline che si trasferiscono in campagna e scoprono creature magiche nei boschi. Ma dietro la leggerezza narrativa si cela un senso profondo di nostalgia e tenerezza: Totoro, con la sua figura bonaria e silenziosa, è diventato il simbolo dello Studio, quasi un guardiano del tempo perduto dell’infanzia. Un altro capolavoro dello stesso anno, Una tomba per le lucciole di Takahata, sposta completamente il tono: è un racconto crudo e struggente ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, un’opera che ha fatto della memoria storica una materia viva, insostenibile e necessaria da raccontare.
Il successo internazionale è arrivato nel 2001 con La città incantata, che ha vinto l’Oscar come miglior film d’animazione. In quella storia di una bambina catapultata in un mondo dominato da spiriti e regole arcane, si leggono allegorie sul consumismo, sulla perdita dell’identità, sull’adolescenza. Ma ciò che resta davvero impresso è l’atmosfera sospesa, quel modo in cui Ghibli riesce a rendere tangibile l’invisibile.
La forza dello Studio Ghibli sta proprio qui: nel costruire una filmografia che assomiglia più a una raccolta di racconti orali che a una sequenza di film commerciali. Ogni opera è un piccolo archivio, un luogo in cui la realtà si mescola al sogno, la quotidianità alla leggenda. Non esiste, nei film Ghibli, una distinzione netta tra magia e vita reale: entrambe convivono nello stesso spazio emotivo.
Nel tempo, accanto a Miyazaki e Takahata, sono cresciuti nuovi registi, come Gorō Miyazaki e Hiromasa Yonebayashi, portando avanti lo spirito dello studio con nuove storie e nuove sensibilità. E anche se Hayao Miyazaki ha più volte annunciato il suo ritiro, la sua voce continua a farsi sentire. L’ultimo film, Il ragazzo e l’airone, uscito nel 2023, è una sorta di epilogo e allo stesso tempo un ritorno alle origini: una riflessione sulla morte, sulla memoria e sul potere dell’immaginazione che sfida il tempo.
Oggi lo Studio Ghibli non è soltanto una casa di produzione. È un archivio vivente di emozioni, una biblioteca di anime animate. I suoi film vengono proiettati nelle sale di tutto il mondo, collezionati, studiati, citati. E ora anche vissuti, grazie all’apertura del Ghibli Park in Giappone, un luogo dove le scenografie più iconiche diventano percorsi da attraversare con lo stupore di chi entra in una fiaba.
Ma la vera eredità dello Studio Ghibli non è nel merchandising né nei premi. È in ciò che lascia negli spettatori: quel senso di bellezza fragile, quella malinconia lieve che solo le storie autentiche sanno trasmettere. Perché Ghibli ci ricorda che raccontare storie non è solo intrattenere: è tenere viva la memoria di ciò che siamo stati, di ciò che ancora possiamo essere.
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