Nel silenzio ovattato di un teatro giapponese, le luci si abbassano e inizia la magia. Una figura entra in scena, vestita di seta preziosa, il volto candido come porcellana, i movimenti lenti e misurati, carichi di grazia. Tutti sanno che quella figura è un uomo. Eppure, davanti agli occhi del pubblico, si compie una metamorfosi: quell’attore non sta semplicemente interpretando una donna, sta diventando un onnagata.

Nel mondo affascinante del teatro Kabuki, l’onnagata è una presenza ricorrente, essenziale, quasi sacrale. È l’attore maschio che ricopre ruoli femminili, incarnando non solo personaggi, ma un’idea stilizzata e ideale della femminilità. Quella dell’onnagata è un’arte antica e raffinata, nata per necessità e trasformata nei secoli in una vera e propria tradizione culturale.

Tutto ha inizio all’alba del Seicento, quando il teatro Kabuki muoveva i primi passi grazie all’estro di Okuni, una danzatrice di Kyoto che metteva in scena performance audaci e teatrali con un gruppo di attrici e musicisti. Il suo stile anticonformista, spesso satirico e a tratti provocante, conquistò rapidamente le folle. Ma il successo portò con sé anche la repressione: nel 1629, lo shogunato Tokugawa vietò alle donne di esibirsi sul palco, temendo disordini morali e sociali. Fu una decisione drastica, che cambiò per sempre il volto del teatro giapponese.

Privati delle attrici, i teatranti dovettero trovare una soluzione. Gli uomini iniziarono così a interpretare tutti i ruoli, inclusi quelli femminili. Ma quella che poteva sembrare una sostituzione tecnica si trasformò gradualmente in una scuola di stile. L’onnagata non era un semplice uomo truccato da donna: era il risultato di un lungo apprendistato, fatto di studio del portamento, della voce, del gesto, persino del respiro. L’obiettivo non era imitare, ma sublimare. La donna rappresentata dall’onnagata non era reale, bensì idealizzata: incarnava un’immagine collettiva di bellezza, pudore, silenzio, dolore trattenuto.

Nel corso dei secoli, quest’arte si è codificata con regole severe. Il trucco bianco, le elaborate parrucche, i kimono dai colori simbolici, la camminata in punta di piedi, il timbro della voce che scivola in registri più acuti: ogni dettaglio concorre a creare una figura che sembra sospesa tra i generi, tra i mondi. Una figura che non ha bisogno di convincere razionalmente lo spettatore, ma che lo conduce, dolcemente, nella sfera del simbolico e dell’estetico.

Le storie degli onnagata si intrecciano con quella delle grandi dinastie teatrali giapponesi. Intere famiglie di attori si sono tramandate i segreti di questa forma espressiva, conservandola con lo stesso rigore con cui si conserva una cerimonia sacra. E nomi come quello di Segawa Kikunojō nel XVIII secolo, o del celebre Tamasaburō Bandō V nei giorni nostri, sono entrati nella leggenda. Bandō, in particolare, è riuscito a portare la figura dell’onnagata anche al di fuori del Giappone, collaborando con registi e coreografi occidentali, dimostrando che quest’arte, sebbene antichissima, parla ancora all’immaginario contemporaneo.

Oggi, mentre il mondo rilegge e decostruisce le categorie tradizionali di genere, la figura dell’onnagata acquista nuovi significati. Non è più solo il custode di una tradizione, ma anche una voce che ci ricorda come il teatro sia, da sempre, uno spazio di trasformazione, dove il corpo può raccontare ciò che nella vita ordinaria resta indicibile. In un tempo che cerca autenticità in ogni rappresentazione, l’onnagata ci offre un paradosso: proprio attraverso l’artificio e la stilizzazione, riesce a toccare qualcosa di profondamente umano e universale.

In ogni sua entrata in scena, c’è un mondo che si ricompone. Un’epoca, un’idea, un’emozione. Perché, dopotutto, l’onnagata non è solo un attore. È un ponte vivente tra passato e presente, tra maschile e femminile, tra ciò che siamo e ciò che sogniamo di essere.

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