Nel cuore della musica giapponese, là dove si intrecciano nostalgia e devozione, vive l’enka: un genere che non si ascolta soltanto, ma si sente sotto pelle. È la voce delle emozioni taciute, il canto della malinconia, della fedeltà e dell’amore perduto. È una confessione fatta in forma di melodia, una poesia popolare che racconta la fragilità umana.

L’enka nasce a fine Ottocento in un Giappone in fermento. Allora era canto di protesta, voce dei senza voce, camuffato da melodia per eludere la censura. Ma nel dopoguerra, muta: diventa il suono del ricordo e dell’identità, mescolando armonie occidentali e scale giapponesi. Le prime raccolte discografiche degli anni Quaranta e Cinquanta sono oggi documenti sonori di un popolo in rinascita.

Negli anni Sessanta e Settanta, l’enka vive la sua epoca d’oro. Artisti come Misora Hibari, con la sua voce limpida, diventano simboli nazionali. Le sue raccolte — vere cronache musicali — sono ancora oggi ristampate e conservate come reliquie. Ogni brano è un affresco: un amore finito, un treno che parte, un addio silenzioso. Accanto a lei brillano nomi come Saburō Kitajima e Sayuri Ishikawa, capaci di trasformare il dolore in bellezza.

Le raccolte storiche dell’enka sono veri e propri archivi del sentimento: antologie tematiche dedicate alle stagioni, ai paesaggi, ai sentimenti universali. Ascoltarle è come aprire un album di famiglia giapponese. Molte famiglie le custodiscono ancora, in vinile o CD, come parte viva della propria memoria.

Oggi, sebbene meno centrale nel panorama pop, l’enka continua a vivere. Le etichette rilasciano cofanetti commemorativi, nuove edizioni rimasterizzate, e artisti contemporanei come Kiyoshi Hikawa cercano di rinnovarne la voce. In eventi come il Kōhaku Uta Gassen, l’enka conserva il suo posto, trattato con rispetto quasi rituale.

Ascoltare enka oggi significa ascoltare la storia. E ricordare che, anche in tempi digitali, c’è ancora spazio per un canto che viene dal cuore.

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